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I Predicati Nobiliari

Autore: Conte Avvocato Gherardo Guelfi Camaiani, tutti i diritti riservati

Nell’ambito del Dirittto Nobiliare contemporaneo, il dato normativo di riferimento è rappresentato dall’art. XIV delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione della Repubblica Italiana, che testualmente recita: “i titoli nobiliari non sono riconosciuti; i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome; (…) la legge regola la soppressione della Consulta Araldica”.

Riguardo le conseguenze dell’entrata in vigore di tale norma sulla disciplina dei titoli nobiliari, si veda la sezione specificamente dedicata appunto ai titoli nobiliari, per quanto concerne i predicati nobiliari, l’art. XIV citato, ha conferito, quale norma precettiva di immediata applicazione, un vero e proprio diritto soggettivo alla “cognomizzazione” del predicato in favore di coloro al quali spettava, anteriormente al 28 ottobre 1922, il titolo nobiliare connessovi.

Innanzitutto è opportuno chiarire un aspetto preliminare e cioè la ratio della disposizione.  Il Costituente, se da un lato non ha ritenuto compatibile con le esigenze democratiche la conservazione di distinzioni come i titoli nobiliari, idonei a rafforzare i privilegi derivanti dalla nascita, da un altro lato, ha considerato meritevole di tutela l’aspetto relativo alla conservazione del patrimonio storico-familiare italiano. Il predicato nobiliare come segno distintivo della persona, utile alla sua esatta individuazione, vale come parte del nome e riceve dall’ordinamento una tutela giuridica analoga. Se il cittadino, per meglio specificare la propria condizione familiare, può aggiungere al proprio, il cognome di un suo ascendente, può altresì chiedere l’enunciazione del predicato come completamente del nome. Invero, come precisato dalla Corte di Cassazione (sentenza del 27 luglio 1978 n. 3779) gli articoli 6, 7 e 8 Codice Civile tutelano il diritto al nome anche sotto il profilo dell’affermazione della propria identità storica familiare: “il cognome indica l’appartenenza di un individuo ad un determinato gruppo familiare; nel nostro ordinamento repubblicano non trova tutela alcuna l’interesse a vedersi riconosciuta l’appartenenza attraverso la famiglia, ad una determinata classe o casta sociale, o un determinato attributo nobiliare, ma si giustifica invece la tutela del nome completo, servendo questo ad individuare uno specifico gruppo familiare che può avere tradizioni storicamente e socialmente rilevanti”. Già nel 1915 (sentenza del 29 novembre 1915) la Suprema Corte scriveva: “Secondo il significato che gli storici attribuiscono alla parola cognome, deve intendersi per esso quel nome dopo il proprio che è comune alla discendenza, ma, dove diversi siano i rami nei quali un’antica famiglia si sia frazionata, è naturale che gli appartenenti ai medesimi sentano il bisogno di meglio distinguere le loro nuove rispettive formazioni con appellativi speciali; e come già presso i romani, richiamando per esempio alla memoria i nomi del celebre Publio Cornelio Scipione, distruttore di Cartagine, si trova essere stato introdotto l’uso del prenome individuale, nella fattispecie, di Publio, si aggiungesse un nome indicante la gente e un cognome specificante la famiglia, così molte famiglie nobili, in Italia e fuori, fin dai secoli IX e X, anzichè del comune cognome avito, per meglio identificarsi, si servirono abitualmente di un altro, togliendolo dal feudi che ciascuna di esse aveva acquistato, venendo in tal modo a crearsi del nuovi casati, resi conosciuti dal predicato assai più che non fossero dal cognome originario della gente da cui erano derivati. Per questo si trova nei migliori lessici italiani attribuito alla parola cognome anche il significato di titolo d’onore col quale altri sia cognominato. E, se così è – per cognome deve intendersi non la sola denominazione comune di varie famiglie discendenti da un medesimo stipite, ma l’indicazione specifica destinata a farle meglio distinguere l’una dall’altra – non si potrà sul serio contestare che anche il titolo nobiliare sia un elemento interessante l’efficienza del cognome. Che il predicato e il feudo servano ancora attualmente alla designazione di molte famiglie, astraendo persino dal loro vero cognome, preso questo nel senso stretto della parola, si hanno in Italia e negli altri paesi d’Europa molti casi dimostrativi. Ben pochi per esempio saprebbero identificare Il celebre Marchese di Mirabeau dal semplice suo cognome di Righetti. In Italia, e specialmente in Piemonte, vi sono molte famiglie nobili aventi lo stesso cognome; per esempio, i Ferrero, i Della Chiesa, che si distinguono solamente pel nome dei rispettivi loro feudi. Il vero cognome del Conte di Cavour era Benso, ma è passato alla posterità sotto il nome del feudo da cui, secondo l’espressione di Dante: “lo titol del suo sangue fè sua elma”.

Tralasciando di approfondire il significato politico del limite temporale contenuto nella citata norma costituzionale, è opportuno chiarire cosa il costituente abbia voluto significare con la frase ” esistenti prima del 28 ottobre 1922″.

A nostro avviso, secondo una interpretazione letterale del dato normativo, esso esige, ai fini della cognomizzazione dei predicati nobiliari, soltanto la preesistenza del titolo nobiliare alla data del 28 ottobre 1922. Più precisamente, poichè l’articolo summenzionato parla di esistente, si deve ritenere che il costituente si sia riferito solo al fatto storico della preesistenza, e non a quello giuridico del riconoscimento o della iscrizione nel registri nobiliari. Pertanto, può essere aggiunto al nome di famiglia qualsiasi predicato, ancorchè sprovvisto di riconoscimento ufficiale, purchè storicamente esistente ed appartenente alla famiglia dell’interessato prima del 28 ottobre 1922. In tal senso si è espressa anche la Suprema Corte di Cassazione (S.U. 20 maggio 1965 n.986 e 987, Cass. 18 dicembre 1963 n.3189) secondo la quale il diritto alla cognomizzazione del predicato di un titolo nobiliare, sancito dalla XIV disposizione transitoria della Costituzione, deve intendersi nel senso più esteso: cioè che comprenda anche il predicato di titoli che, esistenti prima del 28 ottobre 1922, in quanto conferiti prima di tale data, non avessero formato oggetto di riconoscimento. Invero, il “riconoscimento”, unico provvedimento di giustizia previsto dall’art.16 comma secondo del Regio Decreto 8 maggio 1870 (Regolamento per la Consulta Araldica), era un provvedimento esclusivamente ricognitivo e non creativo di un diritto, da adottarsi con Decreto Ministeriale proprio per la sua essenza di attestazione dell’esistenza del diritto al titolo che era ed è, per sua natura, imprescrittibile.

In altre parole l’essenza del suindicato “riconoscimento” è, secondo l’opinione concorde della migliore dottrina, (Cansacchi-Buccino-Agrò), l’accertamento dichiarativo della legale esistenza in una famiglia di un titolo e di un predicato nobiliare. Esso è stato unanimemente configurato come un “nulla osta” all’esercizio di un diritto già perfetto e preesistente. Il titolo nobiliare, o meglio il diritto al titolo nobiliare, è, quindi, da ritenersi esistente o meno al 28 ottobre 1922 a prescindere dall’essere stato o meno oggetto di “riconoscimento”, derivando la sua esistenza dall’atto giuridico creativo del diritto stesso che è l’atto di concessione. D’altra parte, sotto diverso profilo, la concessione sovrana di un titolo nobiliare con predicato non comportava soltanto la concessione di un titolo onorifico, ma anche di un secondo cognome, In quanto il predicato diveniva il cognome d’uso della famiglia. Tale predicato, come secondo cognome trapassava dal concessionario del titolo a tutti i suoi discendenti, non soltanto in forza delle leggi araldiche, ma soprattutto in forza delle leggi sul nome; tant’è che il predicato continuava a competere ai discendenti anche nel caso di perdita del feudo o di ritorno del titolo alla Corona. E’, quindi, l’atto di concessione del titolo che fonda il legittimo uso del predicato nobiliare ancorchè l’annesso titolo sia stato a suo tempo ufficialmente riconosciuto dalla Consulta Araldica del Regno d’Italia. Sul punto, tuttavia, è intervenuta la Corte Costituzionale (sentenza n.101 dell’8 luglio 1967) che ha viceversa ritenuto non sufficiente la semplice esistenza del titolo nobiliare al 28 ottobre 1922.

La Corte ha ritenuto che il reale significato della norma costituzionale in esame non possa essere accertato se non alla luce del principio espresso dal primo comma della disposizione, secondo il quale l’ordinamento repubblicano non riconosce i titoli nobiliari. Ed infatti l’incertezza intorno all’interpretazione della qualifica esistente riferita ai titoli anteriori al 28 ottobre 1922 non può essere superata da considerazioni meramente letterali. Vero è che nel passato ordinamento un titolo nobiliare era da considerare esistente indipendentemente dal riconoscimento amministrativo o giurisdizionale, che aveva solo una funzione di accertamento (peraltro necessario al legittimo uso ufficiale del titolo), ma è da escludere che la lettera della norma costituzionale si riferisca all’esistenza del titolo in contrapposto al suo riconoscimento: la contrapposizione, invero, è solo fra titoli anteriori e titoli posteriori al 28 ottobre 1922, e la proposizione normativa esprime in forma lessicalmente positiva la esclusione dei secondi dal c.d. diritto alla cognomizzazione. Sicchè, equivalendo la frase “esistenti prima del 28 ottobre 1922” a quella “non conferiti dopo il 28 ottobre 1922”, è chiaro che l’interpretazione letterale non è idonea alla risoluzione del diverso problema qui in esame, che va, perciò raggiunta con l’impiego di altri canoni ermeneutici: ed anzitutto attraverso il coordinamento dei due primi commi della disposizione, nel senso che al secondo deve essere attribuito quel significato che maggiormente si concili col primo. E’ questo, infatti, ad esprimere la scelta di fondo operata dal costituente, e con essa ogni altra norma relativa alla materia va di necessità coordinata.

Ciò posto, è da mettere in rilievo che il divieto di riconoscimento dei titoli nobiliari per l’accertamento ed il conseguente legittimo uso di un titolo già di per se esistente non attiene solo all’attività giudiziaria o amministrativa necessaria, come accadeva nel precedente ordinamento, ma comporta che i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza: in una parola, essi restano “fuori del mondo giuridico”. Da questa premessa che nessuno contesta, inevitabilmente discende che l’ordinamento non può contenere norme che impongano ai pubblici poteri di dirimere controversie intorno a pretese alle quali la Costituzione disconosce ogni carattere di giuridicità. E perciò, una volta attribuita al primo comma quel contenuto e queste conseguenze, è certo da escludere che il secondo possa essere interpretato in un senso che con l’uno e con le altre sarebbe in contrasto. Ciò accadrebbe ove si accogliesse la tesi che, al fine della cognomizzazione, il giudice debba accertare l’esistenza del titolo in capo a questo o a quel soggetto, valutarne le vicende alla stregua delle regole proprie del regime successorio nobiliare e dare piena applicazione alla legislazione araldica fino al punto – secondo la teoria che appare più coerente con le premesse – da potersi pronunziare solo previo contraddittorio dell’interessato con l’ufficio araldico (legislativamente definito come rappresentante della regia prerogativa) e con provvedimento destinato ad essere iscritto negli appositi libri nobiliari. Nè importa che l’accertamento andrebbe compiuto non in funzione del legittimo uso del titolo, ma come strumentale rispetto al diverso diritto relativo all’aggiunta del predicato al nome: ed infatti, nonostante questa finalità, il titolo costituirebbe pur sempre oggetto di un diritto e di una vera e propria tutela giuridica, laddove l’uno e l’altra sono perentoriamente esclusi dal principio enunciato nel primo comma.

Tale irrilevanza giuridica del titoli nobiliari impedisce, dunque, che essi possano essere giudizialmente accertati e perciò il secondo comma della XIV disposizione va interpretato nel residuo senso che l’aggiunta al nome dei predicati anteriori al 28 ottobre 1922 non trova la sua fonte nel diritto al titolo, non più sussistente, ma nel già intervenuto riconoscimento che assume il ruolo di presupposto di fatto del diritto alla cognomizzazione.

Siffatta conclusione, oltre a rispondere all’esigenza di una corretta interpretazione sistematica desunta dal necessario coordinamento dei due primi commi della XIV disposizione, trova pieno conforto nel lavori preparatori, dal quali si ricava che intento del Costituente fu quello di evitare che dal disconoscimento del titoli nobiliari potesse derivare una lesione del diritto al nome (il che, ovviamente, esclude la cognomizzazione attuale di predicati mai riconosciuto e perciò mai legittimamente usati come elemento di individuazione del casato) ed è nel contempo l’unica che appaia conciliabile con la “pari dignità sociale” garantita dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione.

Secondo la Corte Costituzionale, quindi, la cognomizzazione del predicati nobiliari può essere ottenuta solo con riferimento ai predicati su cui poggiano quel titoli nobiliari esistenti prima del 28 ottobre 1922 e riconosciuti prima dell’entrata in vigore della Costituzione.

Ma, come giustamente sottolineato dal Prof. Aldo Pezzana (La sentenza della Corte Costituzionale sui titoli nobiliari, in Rivista Araldica, 1967 pagg. 205 e segg.), “nel nostro ordinamento giuridico la Corte Costituzionale ha il potere di invalidare, con sentenze operanti erga omnes, le norme legislative contrastanti con la Costituzione, ma non d’interpretare in modo vincolante per gli altri giudici le norme della Costituzione indipendentemente da una questione di legittimità costituzionale (contrasto di una legge con la Costituzione); nell’interpretazione della Costituzione, come di ogni altra legge, ogni giudice è sovrano nel limiti della propria competenza”. In altri termini, il giudice competente a conoscere del diritto alla cognomizzazione del predicato nobiliare, “sarà libero di interpretare il precetto costituzionale secondo il proprio autonomo convincimento”; per quanto concerne la questione sostanziale di quali predicati siano suscettibili di cognomizzazione, “la sentenza esprime soltanto una opinione sull’interpretazione della XIV dispos. trans., opinione che è certamente autorevole per l’altissima Magistratura dalla quale promana, ma che nelle future possibili controversie non potrà vincolare il giudice ed avrà in buona sostanza il valore di un precedente giurisprudenziale”.

E’ da precisare, inoltre, che la Corte Costituzionale con la suddetta pronuncia ha disatteso l’opinione seguita sino a quel punto pressoché unanimemente dalla giurisprudenza e dalla dottrina, secondo cui quello che importava ai fini della cognomizzazione del predicato era che l’atto costitutivo del titolo nobiliare fosse anteriore al 1922 mentre nulla rilevava la circostanza che fosse intervenuto o no un provvedimento di riconoscimento ministeriale.

In conclusione la Corte, come conseguenza dell’interpretazione data della XIV dispos. trans., ha stabilito che le vicende del diritto alla cognomizzazione devono essere valutate alla stregua delle norme che disciplinano i modi di acquisto del nome e che la tutela di tale diritto deve seguire le regole che l’ordinamento detta per la tutela del diritto al nome.

Ciò è importante al fine di chiarire, nel silenzio dell’art. XIV dispos. trans., quali siano gli strumenti processuali da adottare per cognomizzare i predicati nobiliari.

Anche su questo punto esistono varie interpretazioni. La giurisprudenza prevalente ritiene necessario, in ogni caso, il procedimento contenzioso ordinario, nei confronti dell’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e degli eventuali controinteressati.

La dottrina più autorevole distingue tra i predicate annessi ai titoli riconosciuti ovvero non riconosciuti prima dell’entrata in vigore della Costituzione.

Più precisamente, si ritiene rispetto ai primi ammesso il procedimento di rettifica degli atti di Stato Civile, come regolato dagli artt. 165 e segg. R.D. 9 luglio 1939 n. 1238 (ora artt. 95 e segg. D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396); per i secondi si ritiene necessario il procedimento contenzioso ordinario nei confronti dell’Ufficio Araldico ovvero dell’Ufficiale di Stato Civile, trattandosi non di semplice rettifica, ma di controversia su uno status familiare.

A nostro avviso, viceversa, poichè riteniamo importante il fatto della concessione e non quello del riconoscimento, risulta corretto in entrambe le ipotesi il procedimento di rettifica. Questo perchè con l’azione intrapresa ex art. 167 R.D. 1238 del 1939 (ora art. 95 D.P.R. 396/00), il ricorrente intende rettificare l’atto di nascita con l’inserimento del predicato che avrebbe dovuto essere enunciato, come necessario completamente del nome, nel momento in cui gli fu legittimamente concesso il titolo nobiliare appoggiato sul predicato. Ciò considerando anche che l’art. 167 del Regio Decreto (nonché l’art. 95 D.P.R. 396/00) suindicato non contiene una elencazione tassativa dei casi in cui si può chiedere una rettifica degli atti dello Stato Civile e in mancanza di un procedimento per questo scopo specificamente previsto dalla legge, il procedimento di rettificazione deve adottarsi tutte le volte che è necessario, o correggere errori materiali, ovvero provvedere all’integrazione di un atto incompleto come nel caso in esame, chiedendo il ricorrente che gli sia restituito l’uso del cognome completo cui ha diritto per discendenza legittima dal concessionario del titolo nobiliare appoggiato sul predicato.

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