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I Titoli Nobiliari

Autore: Conte Avvocato Gherardo Guelfi Camaiani, tutti i diritti riservati

La XIV disposizione transitoria della Costituzione repubblicana recita: “i titoli nobiliari non sono riconosciuti; i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome; (…) la legge regola la soppressione della Consulta Araldica”.
Tale norma, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, non rappresenta una novità sul piano giuridico, il principio in essa espresso, infatti, si trova riconosciuto in altre Costituzioni moderne; in quella tedesca di Weimar: “i titoli nobiliari valgono solamente come parte del nome e non dovranno esserne conferiti di nuovi”; in quella irlandese del 1937 che impedisce la concessione di nuovi titoli nobiliari; in quella cecoslovacca: “i titoli non devono essere accordati che per designare l’impiego o la professione”.
Essa ha posto nella nostra legislazione due precetti innovativi: l’uno di portata negativa, e cioè il disconoscimento dei titoli nobiliari; l’altro di portata positiva, e cioè la “cognomizzazione” dei predicati già connessi ai titoli nobiliari.
Riguardo al primo aspetto (del secondo ci occuperemo nella sezione specificamente dedicata ai predicati nobiliari), la Costituzione della Repubblica non ha abolito o soppresso i titoli nobiliari ma li ha semplicemente disconosciuti. Come ha giustamente ritenuto la Corte di Cassazione con sentenza del 16 luglio 1951, ciò significa che la Costituzione non pone alcun divieto all’uso pubblico o privato dei titoli nobiliari da parte di chi ne sia investito il non riconoscimento vale come divieto solo nei confronti dei pubblici ufficiali, i quali hanno il dovere di omettere ogni indicazione del titolo nobiliare negli atti da essi formati. In altre parole, la Costituzione ha posto “fuori” dall’ordinamento giuridico italiano i titoli nobiliari: il loro uso è indifferente di fronte allo Stato, il quale, non riconoscendoli, non accorda ad essi la sua protezione.
Sotto l’impero dell’attuale Costituzione, dunque, nessun organo statale, sia amministrativo sia giudiziario, potrà ulteriormente attribuire ufficialmente titoli nobiliari, nè gli aventi diritto avranno la facoltà di esperire un’azione giudiziaria diretta, in via principale, ad ottenere una sentenza “accertativa” della spettanza di un titolo nobiliare.
Poiché, dunque, l’ordinamento giuridico italiano “disconosce” i titoli nobiliari ed il loro uso è indifferente per lo Stato italiano, l’uso di un titolo nobiliare di pura fantasia, cioè mai concesso all’utilizzatore da parte di alcuna fons honorum, non potrà essere sanzionato da alcun organo statale; d’altra parte nessuna norma vieta l’uso di tali titoli, non configurando tale comportamento alcun illecito, neanche di tipo penale.

Simili conclusioni valgono anche per i titoli nobiliari di nuova concessione, cioè quei titoli che derivano da quelle fons honorum che ancora oggi concedono titoli nobiliari con o senza predicato.
Ma se nessun illecito è configurabile a carico di chi conferisca od usi tali titoli, la questione dei titoli nobiliari di nuova concessione è un po’ più complessa sotto il profilo del diritto nobiliare.
Con riferimento alla prerogativa di conferire titoli nobiliari, è necessario precisare che la sovranità comprende: lo jus imperii, cioè il diritto al comando politico; lo jus gladii, cioè il diritto al comando militare; lo jus majestatis, che è il diritto al rispetto ed agli onori del rango e lo jus honorum che è il diritto a premiare i sudditi con titoli nobiliari, decorazioni e privilegi.
Per una certa dottrina (FURNO’; PENSAVALLE DE CRISTOFARO) il Sovrano perderebbe tutte queste prerogative allorquando subisca una capitolazione sotto forma di abdicazione, rinuncia, vassallaggio o acquiescenza al nuovo ordinamento politico (debellatio). Qualora viceversa il Sovrano venga estromesso dal dominio sul proprio territorio in assenza di un atto abdicativo o comunque di acquiescenza al nuovo ordinamento politico, egli subirebbe una perdita dello jus imperii e dello jus gladii ma manterrebbe del tutto intatti lo jus majestatis e lo jus honorum. Il Sovrano spodestato, non debellato, conserverebbe pertanto oltre al diritto di pretenzione al trono, quello di conferire titoli nobiliari, oltre che decorazioni e distinzioni cavalleresche.
Viceversa, per altra illustre dottrina (MISTRUZZI DI FRISINGA, Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, Milano, 1961, vol. III, pp. 313 e segg.), dal punto di vista del diritto nobiliare, “la concessione di titoli nobiliari, pur essendo una prerogativa regia, si esplica sempre in funzione della sovranità della quale il Capo dello Stato è costituzionalmente investito (…). Sembra, al riguardo, irrilevante il fatto che il Monarca abbia oppure no abdicato”.

I titoli nobiliari sono indicati all’art. 3 del R.D. 7 giugno 1943, n. 651 (l’ultimo Ordinamento dello stato nobiliare) e sono in ordine decrescente: Principe, Duca, Marchese, Conte, Visconte, Barone, Nobile, nonché Signore, Cavaliere Ereditario, Patrizio e Nobile di determinate città. Per il secondo comma del medesimo articolo, a partire dal 1943 tali ultimi titoli non potevano essere più concessi ma soltanto riconosciuti agli aventi diritto se derivanti da antiche concessioni. In effetti i titoli di Visconte, Signore e Cavaliere Ereditario, non vennero mai conferiti dai Re d’Italia dopo l’unificazione.
Gli Ordinamenti del 1929 e del 1943 accolsero e codificarono il principio dell’esclusione della successione per linea femminile, già abolita per effetto del R.D. 16 agosto 1926, n. 1498.
Senza entrare nel merito delle norme contenute nel R.D. 1498/26, è da segnalare che l’ultima legge nobiliare del Regno d’Italia ribadì il principio, già espresso in detto Decreto, della successione per linea maschile: “le successioni dei titoli, predicati e attributi nobiliari hanno luogo a favore della agnazione maschile dell’ultimo investito (…); i titoli, i predicati e gli attributi nobiliari non si trasmettono per linea femminile” (art.40 R.D. 651/43).
Tale principio valeva per tutti i titoli, anche per quelli concessi sia ai maschi sia alle femmine: “i titoli, i predicati, le qualifiche o gli stemmi nobiliari concessi oltre che ai maschi anche alle femmine, spettano durante lo stato nubile alle medesime, qualunque sia la loro posizione in linea e non danno luogo a successione;” (art. 43, primo comma) “nello stato matrimoniale esse non possono farne uso se non applicando il titolo nobiliare al cognome di nascita preceduto dal qualificativo <nata>”(art. 43, secondo comma). Per esempio, se il Conte Rossi avesse avuto due figli, un maschio ed una femmina, al maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe poi trasmesso ai suoi discendenti, mentre alla femmina sarebbe spettato il titolo di Contessa ma solo durante il nubilato; una volta sposata, essa avrebbe potuto farne uso solo specificando il cognome di nascita preceduto dal qualificativo nata e, comunque, il titolo non si sarebbe trasmesso ai suoi figli.
I titoli concessi o riconosciuti come trasmissibili per primogenitura maschile si trasmettevano solo in favore del primogenito maschio:“agli ultrogeniti di famiglie insignite di titoli primogeniali, è attribuito, oltre alla semplice nobiltà, il diritto di aggiungere al cognome l’appellativo del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso <dei>” (art. 43, terzo comma). Se per esempio il Conte Rossi (titolo primogeniale) avesse avuto tre figli, solo al primogenito maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti. Generalmente tale forma di trasmissione, era prevista per i titoli di origine feudale muniti di predicato. Nel qual caso, riprendendo in parte l’esempio precedente, solo al maschio primogenito del Conte Caio Rossi di Villaverde, sarebbe spettato il titolo di Conte di Villaverde e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti di Villaverde.
In relazione a tale forma di successione, al fine di risolvere ogni possibile dubbio interpretativo, l’art. 13 disponeva che: “nel caso di parto plurimo si considera primogenito il primo venuto alla luce” (art. 13).

Altro principio generale del diritto nobiliare era che i titoli ed i trattamenti nobiliari si trasmettevano solo attraverso la filiazione legittima e naturale. Le disposizioni anteriori all’unificazione che prevedevano, in via eccezionale, in mancanza di discendenti legittimi, la successione a favore dei figli naturali riconosciuti e dei figli adottivi, vennero abrogate dal R.D. 16 agosto 1926, n. 1489. Anche le investiture contenute nelle Lettere Patenti di concessione, fissavano generalmente la devoluzione dei titoli ai “discendenti legittimi e naturali”. In detta espressione, alla copulativa e, doveva essere dato un valore congiuntivo e non disgiuntivo, essendo chiamati a succedere solo i discendenti che fossero ad un tempo legittimi e naturali. Questo è il principio che fu accolto nell’ultimo Ordinamento dello stato nobiliare.
Pertanto, furono esclusi dalla successione nobiliare innanzitutto i figli adottivi che sono legittimi ma non naturali (art. 42, R.D. 651/43), salva ovviamente la possibilità di un provvedimento di grazia sovrana (rinnovazione, nuova concessione a loro favore, espressa previsione della loro successione nell’atto di concessione del titolo dato a favore dell’adottante). Tale regola si giustificava con il voler evitare il pericolo che tale forma di successione nei titoli fosse utilizzata per attuare un commercio simulato dei titoli stessi, rimanendo la collazione dei titoli nobiliari una prerogativa esclusiva della Corona, con esclusione di ogni successione sia per atto tra vivi (tra cui figurava l’adozione), sia per atto di ultima volontà.
Inoltre, furono esclusi gli spurii, che sono naturali ma non legittimi (art. 41, primo comma, R.D. 651/43). I figli naturali, ancorché riconosciuti, non succedevano nei titoli e predicati nobiliari a meno che non venissero legittimati per susseguente matrimonio o per Decreto Reale.
La legittimazione per susseguente matrimonio, in ossequio al principio accolto dal diritto canonico e feudale, produceva effetto ex tunc cioè dal giorno del concepimento. Vi era una fictio iuris per la quale l’effetto del matrimonio era riportato al giorno del concepimento, ponendo così in un piano di parità i figli nati dopo il matrimonio con quelli nati prima di esso: “i figli legittimati per susseguente matrimonio succedono nei titoli e predicati al pari dei figli legittimi” (art. 41, secondo comma R.D. 651/43). La legittimazione per subsequens, dunque, metteva i figli nella medesima condizione in cui si sarebbero trovati se nati in costanza di matrimonio.
Poteva accadere però che il riconoscimento non avvenisse all’atto stesso del matrimonio, ma in un momento successivo, dopo la sua celebrazione. Tale ipotesi era regolata dalla seconda parte del medesimo comma dell’art. 41 del per il quale: “gli effetti della legittimazione, rispetto alla successione nei titoli, quando il riconoscimento è posteriore al matrimonio, prendono data dal giorno del riconoscimento”. L’applicazione di tale principio produceva particolari conseguenze allorquando si fosse trattato di un titolo trasmissibile per primogenitura. Qualora, infatti, il riconoscimento fosse stato posteriore al matrimonio, la legittimazione non avrebbe retrodatato la nobiltà del legittimato al giorno della nascita (come nel caso di riconoscimento contestuale e all’atto di matrimonio), ma le avrebbe dato principio solo dall’atto della legittimazione stessa. E nel caso di concorrenza tra figli legittimi e figli legittimati, la preferenza nella successione al titolo sarebbe stata determinata dall’anzianità nel possesso della condizione di legittimità e non dall’anzianità di età.

Come detto la XIV disp. trans. della Costituzione ha posti fuori dal mondo giuridico i titoli nobiliari ed ha implicitamente abrogato tutta la passata legislazione araldica. Ma se le norme contenute nell’ultimo Ordinamento dello stato nobiliare italiano non hanno più alcun valore giuridico, ben possono – anzi a mio avviso devono — essere ritenute ancor oggi valide come consuetudine sociale-nobiliare. Esse sono il necessario punto di riferimento per porre ordine nella complessa materia della trasmissione dei titoli nobiliari.
E applicando i principi espressi nell’Ordinamento del 1943 si possono notare le seguenti importanti conseguenze pratiche.

I titoli nobiliari non possono formare oggetto di private disposizioni per atto tra vivi o di ultima volontà.

La successione nei titoli nobiliari non si attua in linea femminile: i titoli concessi ai maschi ed alle femmine spettano a queste ultime solo per il periodo del nubilato e non danno luogo a successione.

Mentre oggi per il diritto civile i figli gli adottivi, i legittimati per susseguente matrimonio o per provvedimento del giudice ed i naturali riconosciuti anche giudizialmente, sono parificati anche ai fini successori ai figli legittimi, la trasmissione dei titoli nobiliari non si attua in favore dei figli adottivi e dei figli naturali anche se riconosciuti. Ai fini nobiliari, ai figli legittimi sono equiparati solo quelli legittimati per susseguente matrimonio. L’equiparazione relativa ai figli legittimati per Decreto del Capo dello Stato, previe Lettere Patenti di Regio Assenso al passaggio del titolo, è evidentemente un ipotesi oggi non più realizzabile nell’attuale carenza di un siffatto Potere Sovrano: il codice civile attuale prevede all’art. 284, la legittimazione per provvedimento del giudice, ma mancherebbe comunque la possibilità di ottenere un provvedimento di Assenso Sovrano.

In riferimento ai rapporti tra coniugi, l’art. 143 bis del Codice Civile stabilisce che: “la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”. In tema di titoli nobiliari, in caso di matrimonio, la donna maritata non può usare il titolo nobiliare della propria famiglia d’origine applicandolo al cognome del coniuge che ha assunto in seguito al matrimonio. Il titolo potrà essere usato dalla donna maritata solo applicando il titolo stesso al cognome di nascita preceduto dal qualificativo “nata”: ad esempio: Caia Rossi, nata contessa Bianchi. Tuttavia la donna maritata può assumere il titolo nobiliare del marito, eventualmente aggiungendolo al proprio; perde il titolo nobiliare maritale a seguito di annullamento del matrimonio, nonché a seguito di divorzio ma non a seguito di vedovanza: “la moglie segue la condizione nobiliare del marito e la conserva anche durante lo stato vedovile” (art. 12 R.D. 651/43). Contrariamente, non è consentito al marito di donna titolata usare maritali nomine titoli della moglie vivente o defunta (art. 47 del R.D. 651/43); usanza un tempo diffusa soprattutto nello Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie.

Infine, in tema di cognome: “l’assunzione, l’uso e la trasmissione di un cognome, neppure in caso di adozione, implicano il conseguimento dei titoli e degli attributi nobiliari ad esso connessi” (art. 50 del R.D. 651/43). Al fine di evitare anomale forme di successione di titoli nobiliari, anche tale disposizione deve ritenersi tutt’oggi valida con riferimento alle ipotesi di aggiunzione di cognome, come regolate dal D.P.R. 396/2000. Si evidenzia inoltre che, mentre i titoli si trasmettono secondo le norme illustrate in precedenza, il cognome o i cognomi si trasmettono viceversa secondo le regole proprie del nome, cioè alla moglie ed a tutti i figli maschi, femmine, legittimi, legittimati, naturali riconosciuti e adottivi. Ciò vale anche per i predicati nobiliari cognomizzati ai sensi della XIV disposizione transitoria della Costituzione che appunto seguono le vicende ed i modi di successione del cognome.

La XIV disposizione transitoria della Costituzione repubblicana recita: “i titoli nobiliari non sono riconosciuti; i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome; (…) la legge regola la soppressione della Consulta Araldica”.

Tale norma, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, non rappresenta una novità sul piano giuridico, il principio in essa espresso, infatti, si trova riconosciuto in altre Costituzioni moderne; in quella tedesca di Weimar: “i titoli nobiliari valgono solamente come parte del nome e non dovranno esserne conferiti di nuovi”; in quella irlandese del 1937 che impedisce la concessione di nuovi titoli nobiliari; in quella cecoslovacca: “i titoli non devono essere accordati che per designare l’impiego o la professione”.
Essa ha posto nella nostra legislazione due precetti innovativi: l’uno di portata negativa, e cioè il disconoscimento dei titoli nobiliari; l’altro di portata positiva, e cioè la “cognomizzazione” dei predicati già connessi ai titoli nobiliari.

Riguardo al primo aspetto (del secondo ci occuperemo nella sezione specificamente dedicata ai predicati nobiliari), la Costituzione della Repubblica non ha abolito o soppresso i titoli nobiliari ma li ha semplicemente disconosciuti. Come ha giustamente ritenuto la Corte di Cassazione con sentenza del 16 luglio 1951, ciò significa che la Costituzione non pone alcun divieto all’uso pubblico o privato dei titoli nobiliari da parte di chi ne sia investito il non riconoscimento vale come divieto solo nei confronti dei pubblici ufficiali, i quali hanno il dovere di omettere ogni indicazione del titolo nobiliare negli atti da essi formati. In altre parole, la Costituzione ha posto “fuori” dall’ordinamento giuridico italiano i titoli nobiliari: il loro uso è indifferente di fronte allo Stato, il quale, non riconoscendoli, non accorda ad essi la sua protezione.
Sotto l’impero dell’attuale Costituzione, dunque, nessun organo statale, sia amministrativo sia giudiziario, potrà ulteriormente attribuire ufficialmente titoli nobiliari, nè gli aventi diritto avranno la facoltà di esperire un’azione giudiziaria diretta, in via principale, ad ottenere una sentenza “accertativa” della spettanza di un titolo nobiliare.

Poiché, dunque, l’ordinamento giuridico italiano “disconosce” i titoli nobiliari ed il loro uso è indifferente per lo Stato italiano, l’uso di un titolo nobiliare di pura fantasia, cioè mai concesso all’utilizzatore da parte di alcuna fons honorum, non potrà essere sanzionato da alcun organo statale; d’altra parte nessuna norma vieta l’uso di tali titoli, non configurando tale comportamento alcun illecito, neanche di tipo penale.


Simili conclusioni valgono anche per i titoli nobiliari di nuova concessione, cioè quei titoli che derivano da quelle fons honorum che ancora oggi concedono titoli nobiliari con o senza predicato.
Ma se nessun illecito è configurabile a carico di chi conferisca od usi tali titoli, la questione dei titoli nobiliari di nuova concessione è un po’ più complessa sotto il profilo del diritto nobiliare.
Con riferimento alla prerogativa di conferire titoli nobiliari, è necessario precisare che la sovranità comprende: lo jus imperii, cioè il diritto al comando politico; lo jus gladii, cioè il diritto al comando militare; lo jus majestatis, che è il diritto al rispetto ed agli onori del rango e lo jus honorum che è il diritto a premiare i sudditi con titoli nobiliari, decorazioni e privilegi.
Per una certa dottrina (FURNO’; PENSAVALLE DE CRISTOFARO) il Sovrano perderebbe tutte queste prerogative allorquando subisca una capitolazione sotto forma di abdicazione, rinuncia, vassallaggio o acquiescenza al nuovo ordinamento politico (debellatio). Qualora viceversa il Sovrano venga estromesso dal dominio sul proprio territorio in assenza di un atto abdicativo o comunque di acquiescenza al nuovo ordinamento politico, egli subirebbe una perdita dello jus imperii e dello jus gladii ma manterrebbe del tutto intatti lo jus majestatis e lo jus honorum. Il Sovrano spodestato, non debellato, conserverebbe pertanto oltre al diritto di pretenzione al trono, quello di conferire titoli nobiliari, oltre che decorazioni e distinzioni cavalleresche.
Viceversa, per altra illustre dottrina (MISTRUZZI DI FRISINGA, Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, Milano, 1961, vol. III, pp. 313 e segg.), dal punto di vista del diritto nobiliare, “la concessione di titoli nobiliari, pur essendo una prerogativa regia, si esplica sempre in funzione della sovranità della quale il Capo dello Stato è costituzionalmente investito (…). Sembra, al riguardo, irrilevante il fatto che il Monarca abbia oppure no abdicato”.

I titoli nobiliari sono indicati all’art. 3 del R.D. 7 giugno 1943, n. 651 (l’ultimo Ordinamento dello stato nobiliare) e sono in ordine decrescente: Principe, Duca, Marchese, Conte, Visconte, Barone, Nobile, nonché Signore, Cavaliere Ereditario, Patrizio e Nobile di determinate città. Per il secondo comma del medesimo articolo, a partire dal 1943 tali ultimi titoli non potevano essere più concessi ma soltanto riconosciuti agli aventi diritto se derivanti da antiche concessioni. In effetti i titoli di Visconte, Signore e Cavaliere Ereditario, non vennero mai conferiti dai Re d’Italia dopo l’unificazione.
Gli Ordinamenti del 1929 e del 1943 accolsero e codificarono il principio dell’esclusione della successione per linea femminile, già abolita per effetto del R.D. 16 agosto 1926, n. 1498.
Senza entrare nel merito delle norme contenute nel R.D. 1498/26, è da segnalare che l’ultima legge nobiliare del Regno d’Italia ribadì il principio, già espresso in detto Decreto, della successione per linea maschile: “le successioni dei titoli, predicati e attributi nobiliari hanno luogo a favore della agnazione maschile dell’ultimo investito (…); i titoli, i predicati e gli attributi nobiliari non si trasmettono per linea femminile” (art.40 R.D. 651/43).
Tale principio valeva per tutti i titoli, anche per quelli concessi sia ai maschi sia alle femmine: “i titoli, i predicati, le qualifiche o gli stemmi nobiliari concessi oltre che ai maschi anche alle femmine, spettano durante lo stato nubile alle medesime, qualunque sia la loro posizione in linea e non danno luogo a successione;” (art. 43, primo comma) “nello stato matrimoniale esse non possono farne uso se non applicando il titolo nobiliare al cognome di nascita preceduto dal qualificativo <nata>”(art. 43, secondo comma). Per esempio, se il Conte Rossi avesse avuto due figli, un maschio ed una femmina, al maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe poi trasmesso ai suoi discendenti, mentre alla femmina sarebbe spettato il titolo di Contessa ma solo durante il nubilato; una volta sposata, essa avrebbe potuto farne uso solo specificando il cognome di nascita preceduto dal qualificativo nata e, comunque, il titolo non si sarebbe trasmesso ai suoi figli.
I titoli concessi o riconosciuti come trasmissibili per primogenitura maschile si trasmettevano solo in favore del primogenito maschio:“agli ultrogeniti di famiglie insignite di titoli primogeniali, è attribuito, oltre alla semplice nobiltà, il diritto di aggiungere al cognome l’appellativo del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso <dei>” (art. 43, terzo comma). Se per esempio il Conte Rossi (titolo primogeniale) avesse avuto tre figli, solo al primogenito maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti. Generalmente tale forma di trasmissione, era prevista per i titoli di origine feudale muniti di predicato. Nel qual caso, riprendendo in parte l’esempio precedente, solo al maschio primogenito del Conte Caio Rossi di Villaverde, sarebbe spettato il titolo di Conte di Villaverde e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti di Villaverde.
In relazione a tale forma di successione, al fine di risolvere ogni possibile dubbio interpretativo, l’art. 13 disponeva che: “nel caso di parto plurimo si considera primogenito il primo venuto alla luce” (art. 13).


Altro principio generale del diritto nobiliare era che i titoli ed i trattamenti nobiliari si trasmettevano solo attraverso la filiazione legittima e naturale. Le disposizioni anteriori all’unificazione che prevedevano, in via eccezionale, in mancanza di discendenti legittimi, la successione a favore dei figli naturali riconosciuti e dei figli adottivi, vennero abrogate dal R.D. 16 agosto 1926, n. 1489. Anche le investiture contenute nelle Lettere Patenti di concessione, fissavano generalmente la devoluzione dei titoli ai “discendenti legittimi e naturali”. In detta espressione, alla copulativa e, doveva essere dato un valore congiuntivo e non disgiuntivo, essendo chiamati a succedere solo i discendenti che fossero ad un tempo legittimi e naturali. Questo è il principio che fu accolto nell’ultimo Ordinamento dello stato nobiliare.
Pertanto, furono esclusi dalla successione nobiliare innanzitutto i figli adottivi che sono legittimi ma non naturali (art. 42, R.D. 651/43), salva ovviamente la possibilità di un provvedimento di grazia sovrana (rinnovazione, nuova concessione a loro favore, espressa previsione della loro successione nell’atto di concessione del titolo dato a favore dell’adottante). Tale regola si giustificava con il voler evitare il pericolo che tale forma di successione nei titoli fosse utilizzata per attuare un commercio simulato dei titoli stessi, rimanendo la collazione dei titoli nobiliari una prerogativa esclusiva della Corona, con esclusione di ogni successione sia per atto tra vivi (tra cui figurava l’adozione), sia per atto di ultima volontà.
Inoltre, furono esclusi gli spurii, che sono naturali ma non legittimi (art. 41, primo comma, R.D. 651/43). I figli naturali, ancorché riconosciuti, non succedevano nei titoli e predicati nobiliari a meno che non venissero legittimati per susseguente matrimonio o per Decreto Reale.
La legittimazione per susseguente matrimonio, in ossequio al principio accolto dal diritto canonico e feudale, produceva effetto ex tunc cioè dal giorno del concepimento. Vi era una fictio iuris per la quale l’effetto del matrimonio era riportato al giorno del concepimento, ponendo così in un piano di parità i figli nati dopo il matrimonio con quelli nati prima di esso: “i figli legittimati per susseguente matrimonio succedono nei titoli e predicati al pari dei figli legittimi” (art. 41, secondo comma R.D. 651/43). La legittimazione per subsequens, dunque, metteva i figli nella medesima condizione in cui si sarebbero trovati se nati in costanza di matrimonio.

Poteva accadere però che il riconoscimento non avvenisse all’atto stesso del matrimonio, ma in un momento successivo, dopo la sua celebrazione. Tale ipotesi era regolata dalla seconda parte del medesimo comma dell’art. 41 del per il quale: “gli effetti della legittimazione, rispetto alla successione nei titoli, quando il riconoscimento è posteriore al matrimonio, prendono data dal giorno del riconoscimento”. L’applicazione di tale principio produceva particolari conseguenze allorquando si fosse trattato di un titolo trasmissibile per primogenitura. Qualora, infatti, il riconoscimento fosse stato posteriore al matrimonio, la legittimazione non avrebbe retrodatato la nobiltà del legittimato al giorno della nascita (come nel caso di riconoscimento contestuale e all’atto di matrimonio), ma le avrebbe dato principio solo dall’atto della legittimazione stessa. E nel caso di concorrenza tra figli legittimi e figli legittimati, la preferenza nella successione al titolo sarebbe stata determinata dall’anzianità nel possesso della condizione di legittimità e non dall’anzianità di età.

Come detto la XIV disp. trans. della Costituzione ha posti fuori dal mondo giuridico i titoli nobiliari ed ha implicitamente abrogato tutta la passata legislazione araldica. Ma se le norme contenute nell’ultimo Ordinamento dello stato nobiliare italiano non hanno più alcun valore giuridico, ben possono – anzi a mio avviso devono — essere ritenute ancor oggi valide come consuetudine sociale-nobiliare. Esse sono il necessario punto di riferimento per porre ordine nella complessa materia della trasmissione dei titoli nobiliari.
E applicando i principi espressi nell’Ordinamento del 1943 si possono notare le seguenti importanti conseguenze pratiche.

I titoli nobiliari non possono formare oggetto di private disposizioni per atto tra vivi o di ultima volontà.

La successione nei titoli nobiliari non si attua in linea femminile: i titoli concessi ai maschi ed alle femmine spettano a queste ultime solo per il periodo del nubilato e non danno luogo a successione.


Mentre oggi per il diritto civile i figli gli adottivi, i legittimati per susseguente matrimonio o per provvedimento del giudice ed i naturali riconosciuti anche giudizialmente, sono parificati anche ai fini successori ai figli legittimi, la trasmissione dei titoli nobiliari non si attua in favore dei figli adottivi e dei figli naturali anche se riconosciuti. Ai fini nobiliari, ai figli legittimi sono equiparati solo quelli legittimati per susseguente matrimonio. L’equiparazione relativa ai figli legittimati per Decreto del Capo dello Stato, previe Lettere Patenti di Regio Assenso al passaggio del titolo, è evidentemente un ipotesi oggi non più realizzabile nell’attuale carenza di un siffatto Potere Sovrano: il codice civile attuale prevede all’art. 284, la legittimazione per provvedimento del giudice, ma mancherebbe comunque la possibilità di ottenere un provvedimento di Assenso Sovrano.

In riferimento ai rapporti tra coniugi, l’art. 143 bis del Codice Civile stabilisce che: “la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”. In tema di titoli nobiliari, in caso di matrimonio, la donna maritata non può usare il titolo nobiliare della propria famiglia d’origine applicandolo al cognome del coniuge che ha assunto in seguito al matrimonio. Il titolo potrà essere usato dalla donna maritata solo applicando il titolo stesso al cognome di nascita preceduto dal qualificativo “nata”: ad esempio: Caia Rossi, nata contessa Bianchi. Tuttavia la donna maritata può assumere il titolo nobiliare del marito, eventualmente aggiungendolo al proprio; perde il titolo nobiliare maritale a seguito di annullamento del matrimonio, nonché a seguito di divorzio ma non a seguito di vedovanza: “la moglie segue la condizione nobiliare del marito e la conserva anche durante lo stato vedovile” (art. 12 R.D. 651/43). Contrariamente, non è consentito al marito di donna titolata usare maritali nomine titoli della moglie vivente o defunta (art. 47 del R.D. 651/43); usanza un tempo diffusa soprattutto nello Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie.

Infine, in tema di cognome: “l’assunzione, l’uso e la trasmissione di un cognome, neppure in caso di adozione, implicano il conseguimento dei titoli e degli attributi nobiliari ad esso connessi” (art. 50 del R.D. 651/43). Al fine di evitare anomale forme di successione di titoli nobiliari, anche tale disposizione deve ritenersi tutt’oggi valida con riferimento alle ipotesi di aggiunzione di cognome, come regolate dal D.P.R. 396/2000. Si evidenzia inoltre che, mentre i titoli si trasmettono secondo le norme illustrate in precedenza, il cognome o i cognomi si trasmettono viceversa secondo le regole proprie del nome, cioè alla moglie ed a tutti i figli maschi, femmine, legittimi, legittimati, naturali riconosciuti e adottivi. Ciò vale anche per i predicati nobiliari cognomizzati ai sensi della XIV disposizione transitoria della Costituzione che appunto seguono le vicende ed i modi di successione del cognome.

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